2052, qualche idea sullo stato del mondo (parte 1 di 2)

Anche questo, 2052, è un libro. Un libro che cerca di ragionare – con tutti i limiti del caso – su quale potrà essere il nostro mondo così lontano nel tempo. Così lontano, mica tanto… Fatti i conti, nel 2052 potrei ancora essere un arzillo 82enne, anche se dubito di essere ancora vivo. Ma diciamo, da me in poi, ragionevolmente tutti i più giovani hanno, in via direttamente proporzionale, buone probabilità di esserlo.

E’ un libro che sto centellinando, perché – pur avendo voglia di leggerlo tutto d’un fiato – è un vero e proprio stillicidio di notizie poco confortanti su come sarà il mondo di domani, a partire dalla miopia gestionale della “cosa pubblica”, tanto fondamentale quanto basata sul nulla nel dibattito politico nostrano, ridotto al solito inascoltabile gossip pre-elettorale.

Il libro di Jorgen Randers – norvegese che fece parte di quel piccolo e meraviglioso gruppo di scienziati del MIT a cui negli anni ’70 del secolo scorso venne commissionato il primo studio sul “mondo che verrà” – è un libro scientificamente accurato ma molto accessibile e ovviamente fa i conti su dove stiamo andando e su cosa stiamo facendo. Scritto nel 2012 – quind qualche anno fa – sulla politica dice questo:

PREVALENZA DELLA VISIONE A BREVE TERMINE

L’effetto negativo della stagnazione sulla crescita della produttività non è un fenomeno obbligato. Può essere evitato, perlomeno nelle fasi iniziali. La redistribuzione del reddi­to e delle opportunità prima che i problemi si ingigantiscano può ridurre enormemen­te le probabilità che si verifichino instabilità sociali. Ma una redistribuzione pacifica si è verificata raramente nel passato e così sarà in futuro. Ciò perché la maggior parte delle decisioni che hanno a che fare con la società vengono influenzate dai loro effetti a bre­ve termine: la società, sia nei sistemi democratici sia nei regimi dittatoriali, è per lo più incapace di vedere i vantaggi che si manifestano sul lungo periodo. L’umanità è spudoratamente ancorata al breve termine e pertanto la redistribuzione programmata dei red­diti di rado avviene prima che i bisogni diventino critici.

Pertanto, sebbene la società potrebbe decidere di cambiare profondamente la distribu­zione dei redditi e del benessere e la composizione della propria economia, non cre­do che questo riguarderà la quantità e il tipo di energia consumata e le emissioni di gas serra. O perlomeno non alla scala necessaria, perché decisioni di questo tipo so­no associate con dei costi iniziali che rendono difficile vedere i benefici che si otter­ranno in seguito. Le persone sono spaventate da soluzioni di questo tipo. Desidera­no ottenere vantaggi da subito e accettano, a denti stretti persino di pagarne i costi in un secondo momento.

La mia assunzione, secondo cui nei processi decisionali la prospettiva a breve termine è prevalente, è una delle cose che non avrei mai osato affermare in maniera cosi risolu­ta quando ero più giovane e avevo minore esperienza. Ma 40 anni di pratica e di batta­glie per la sostenibilità mi hanno convinto che la società, e in modo particolare la socie­tà democratica, tende a scegliere la soluzione più a buon mercato, ovvero quella ove il rapporto tra benefici e costi è il più alto possibile, senza tenere conto di quali siano i co­sti sostenuti e i benefici ricevuti in un orizzonte temporale superiore ai cinque anni. Si tratta di quello che gli economisti chiamano “soluzione efficace economicamente”, cioè la soluzione che fornisce il miglior ritorno in rapporto alla spesa all’interno di una nor­male prospettiva umana, di rado estesa oltre i cinque anni. L’orizzonte temporale limi­tato è un problema serio se la società ha bisogno di investire subito per evitare mi pro­blema in un futuro distante. Il breve termine lavora attivamente contro le politiche sag­ge, e dato che la prospettiva a breve termine tende a essere maggioritaria all’interno del corpo elettorale, lo è anche nella testa dei politici.

Il breve termine domina anche nell’ambito dei mercati. Il mercato tende a sottrarre un tasso del 10% annuo, se non di più, quando compara i costi immediati con i vantaggi ottenibili nel futuro. Ciò significa che un beneficio distribuito su vent’anni verrà valu­tato un ventesimo del suo valore reale. In altre parole, un problema che si manifesterà vent’anni avanti nel futuro sarà degno di essere risolto solo se il costo della sua soluzio­ne sarà inferiore a un decimo del valore da tutelare. Non è una sorpresa per coloro che si occupano di economia: è economicamente efficiente consentire che il mondo si avvii al collasso a causa dei danni provocati dai cambiamenti climatici, dato che questi si ve­rificheranno in un arco temporale superiore ai quarant’anni. Il valore netto nel presen­te dato dalla riduzione delle emissioni e dal salvataggio del pianeta è inferiore al valore netto presente generato dal business as usual. Costa di meno spingere il mondo sull’or­lo del baratro piuttosto che tentare di salvarlo.

Nel mondo della politica non va molto meglio, data la breve durata delle cariche istitu­zionali. I politici raramente possono occupare la propria agenda per questioni, che por­tano a risultati positivi solo dopo l’elezione successiva, che in genere avviene meno di quattro anni dopo.

Pertanto, la moderna democrazia e il mercato capitalista hanno una veduta straordi­nariamente corta. Questo è un problema per un mondo che deve fronteggiare minac­ce climatiche di lungo termine, ma è un indiscutibile vantaggio per noi che lavoriamo alle previsioni. La mentalità a breve termine rende improbabili le deviazioni dalla solu­zione più economicamente efficace (ovvero quella più a buon mercato), che può essere spesso calcolata in anticipo. La caratteristica umana del pensiero a breve termine man­tiene la società su una strada relativamente angusta. Anche se spero di sbagliarmi, so­no pronto a scommettere che in futuro il mondo tenderà ancora a scegliere la soluzio­ne più economica.

Fortunatamente (per il mondo) ci sono delle eccezioni. Alcune di queste sono d risul­tato di azioni lungimiranti di leader saggi. Altre vengono imposte alla società perché c’è un nemico alla porta, o perché la crisi ha già colpito, o perché tutte le altre vie di usci­ta sono impraticabili. Ma queste eccezioni sono rare; normalmente la soluzione più a buon mercato è quella che ha la meglio. E a buon mercato significa che lo è sul breve periodo, cioè su un lasso di tempo inferiore ai cinque anni.

La prevalenza del breve termine è la ragione fondamentale perché faccio previsioni a partire dall’assunzione che l’umanità deciderà di risolvere solo una parte della questione climatica, sebbene potrebbe facilmente affrontarla nella sua totalità. E questo è il mo­tivo per cui credo che l’umanità rimanderà la messa in campo di azioni serie fino a che il danno climatico non sarà chiaramente visibile anche dalle aule parlamentari. Le ec­cezioni saranno i regimi autoritari, che sono nella condizione di non dover rispondere con frequenza alla popolazione.

[Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2012 – grassetti miei]

Cose che sappiamo e su cui non è necessario fare calcoli né previsioni, ma di cui spesso dimentichiamo la portata. Poco prima nel libro viene descritto un altro scenario, più strettamente legato all’ecologia, di cui parleremo nel post che seguirà questo.

Jorgen Randers
Jorgen Randers durante una delle sessioni della prima Summer Academy School del Club di Roma, a Firenze – nel settembre 2017.

 

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