La principessa e i diritti sociali

Sono andato ieri sera alla “mia” Arena a vedere La principessa e l’aquila, (in originale The Eagle Huntress) un docu-film che racconta la storia di Aisholpan Nurgaiv, una ragazzina di 13 anni che vuole fare il mestiere che tutti i suoi avi (maschi) hanno fatto fino a quel momento: l’addestratrice di aquile. Il piccolo – ma non insormontabile – problema è appunto il fatto di essere una donna. Lei non si dà per vinta e, complice il padre che vede in lei il talento, Aisholpan lo diventa, sbaragliando e scalzando tutti i pregiudizi degli anziani secondo i quali (pensate un po’?) la ragazzina dovrebbe stare a casa a preparare il the e a badare alle faccende domestiche.

Sono stato in Mongolia nell’estate del 2005, proprio di questi tempi, in agosto (precisamente il viaggio ha coperto – con ogni mezzo: dal cammello alla transiberiana – Mongolia, Cina e Russia, dal 7 al 24 agosto) e mi sono innamorato, più di quanto fossi disposto a credere all’epoca, di quella gente: i fieri, fierissimi discendenti di Gengis Khan che mi sono sembrati tutti bellissimi ed eleganti, nella cornice di un mondo sconfinato (la Mongolia è un paese con una estensione che è 5 volte quella italiana, con una popolazione complessiva che si aggira sui 3 milioni, ovvero come ua metropoli italiana neppure tra le più grandi), nella loro eleganza e nel loro (quasi*) perfetto equilibrio con la natura.

Una società arcaica che si è fatta permeare dalle tecnologie – almeno per quel che mi fu dato vedere ormai 12 anni fa e da quel che anche traspare dal film – solo per l’essenziale e per la praticità della vita nomade: un pannello fotovoltaico per un dare un po’ di elettricità alla gher (o yurta, come preferite), qualche sporadica motocicletta spesso sovraccarica di persone, di marca incognita, con meccanica basilare e riparabile in ogni momento, degna sostituta dell’unico classico e più ambito mezzo di trasporto: il cavallo, sul quale i mongoli sono capaci di cose incredibili.

I cavalli sono poco più che dei pony e anche le persone non sono molto alte: alimentazione, genetica e ambiente (con temperature che d’inverno possono raggiungere i -40° che non riesco neppure a immaginare) hanno plasmato nei secoli la simbiosi tra uomini e bestie, rendendoli unici per caratteristiche: i cavalli hanno una resistenza incredibile e sopportano tutto (a partire dal freddo) con una docilità commovente, in mezzo a una natura che per i mongoli è “madre” e, per noi mollaccioni occidentali abituati a tutti gli agi, sarebbe non meno che “matrigna”.

E così la storia, semplice come è semplice la vita dei mongoli nomadi, si dipana, in mezzo a questo teatro di natura spettacolare, con la simbiosi con questi altri animali che mai crederemmo addomesticabili: le aquile appunto. Il film è suggestivo sicuramente per le riprese (alcune delle quali con telecamerine simil go-pro, quindi col “punto di vista” dell’aquila…) ma ancora di più per questa vicenda umana così diversa dal metafisico occidente, in cui milioni, miliardi di persone alla fine fanno le stesse identiche cose: mangiano, dormono, fanno la spesa, vanno a lavorare, pagano le bollette, si dedicano a qualche attività nel tempo libero.

Un autentico piccolo miracolo da preservare il più possibile – per me commovente fino alle lacrime, anche se non faccio testo, proprio perché ricordo distintamente il cielo notturno che si vede dal deserto del Gobi, con la volta che davvero ha la forma di una volta di cui si percepisce la curvatura, e una quantità di stelle da lasciare senza fiato.

Vale la pena di riportare quel che scrisse nel suo viaggio prima di me, Giovanni Lindo Ferretti, che le parole ha mostrto di saperle usare bene, definendo la Mongolia “milza del mondo”:

Oltre le gher, in costa, un branco di cavalli scende a trotto leggero verso l’abbeverata, sparse nella valle mandrie di pecore e bovini.

Dal centro delle gher il fumo dei fuochi sale al cielo. Nitriti, belati, muggiti. Planate di aquile nell’aria.

La Mongolia è un Paese arcaico e giovane, giovanissimo. Barbaro nell’impatto, difficile a viversi, forte ed austero. Territorio vario, densamente spopolato.

Gira il tempo con ciclo naturale, le stagioni, sulle esigenze dell’allevamento. Sono gli animali ad offrire la potenza necessaria alla vita: le calorie dell’alimentazione che fa freddo, molto freddo, le necessità e i piaceri dello spostamento, delle relazioni personali e sociali.

Unico residuo della modernità, settanta anni di regime comunista, le linee elettriche che da Ulaan Bator portano la corrente nei capoluoghi degli Aimag. Dono prezioso e scadente e due doni impagabili: l’alfabetizzazione e la profilassi sanitaria.

Se i mongoli non scendono da cavallo, se si appropriano della sostanza del moderno e non della paccottiglia, se saranno attenti, molto attenti nelle scelte e lo possono che sono pochi in uno spazio perfetto, la Mongolia può essere nel mondo come la milza nel corpo umano.

Depuratore. Ritorno. Avanzamento.

In fede C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti)

Così è ancora, a vent’anni da quel viaggio dei CSI. E sicuramente è avanzamento, sociale, grazie alla piccola grande storia di Aisholpan.

PS: chi fosse interessato a qualche foto della Mongolia vista 12 anni fa, può fare un salto qui.

* Quasi perché nell’unica città che possiamo definire tale – la capitale Ulan Bator – si cerca maldestramente di vivere alla occidentale, con tutto quel che ne consegue.

Aisholpan Nurgaiv al Toronto International Film Festival 2016 (da Wikipedia)

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